Gregorio Arena, Past President di Cittadinanzattiva è” professore ordinario di Diritto amministrativo presso l”Università di Trento e professore incaricato di Diritto dell”informazione e della comunicazione pubblica presso la SPISA di Bologna. E” autore di numerosi saggi riguardanti diversi aspetti del rapporto fra amministrazione e cittadini.
1. Premessa
Inizio la mia collaborazione a questa rivista non, come si potrebbe prevedere, con un saggio sulla comunicazione pubblica (più avanti ci saranno anche quelli, naturalmente) bensì con una sorta di programmma di lavoro nel quale cercherò brevemente di illustrare la prospettiva teorica al cui interno si collocheranno i successivi interventi.
Prima di affrontare direttamente il tema della comunicazione pubblica è infatti necessario che sia chiaro il contesto teorico e pratico nel quale si svolge la funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni italiane, centrali e locali.
Per quanto riguarda il primo profilo dichiaro subito che la prospettiva dalla quale mi porrò nei miei interventi riguardanti la comunicazione pubblica e, più in generale, l”amministrazione, è quella delineata da Norberto Bobbio quando afferma che il diritto si può studiare dalla parte del principe oppure dalla parte del popolo; supponendo che in questo caso il principe sia l”amministrazione (intesa come apparati, autorità, poteri di vario genere) e il popolo siano i cittadini (intesi come utenti, amministrati, pazienti, ma anche come potenziali protagonisti nella soddisfazione di esigenze di interesse generale) anche nei miei interventi in questa sede mi porrò, come sempre, dal punto di vista dei cittadini, non dal punto di vista degli apparati.
L”amministrazione non è una macchina (come tanti si ostinano a dire) ma è un sistema complesso in cui operano migliaia di persone, che si rivolge ad altre persone per soddisfarne esigenze fondamentali del vivere civile. Non si può migliorare il funzionamento degli apparati pubblici ponendosi unicamente in una prospettiva aziendal-ingegneristica, per il semplice motivo che le amministrazioni pubbliche non sono aziende e non sono macchine: sono, appunto, amministrazioni pubbliche, cioè organizzazioni che si caratterizzano per il fatto che dovrebbero operare non nel proprio interesse, bensì in quello altrui.
Questo interesse di altri soggetti che giustifica l”esistenza stessa delle amministrazioni pubbliche lo si può chiamare interesse pubblico o interesse generale, purché siano chiare due cose: primo, che non esiste un unico interesse pubblico, ma tanti interessi pubblici (spesso in difficile convivenza fra loro) quante sono le amministrazioni pubbliche; secondo, che in realtà dietro l”interesse pubblico o generale ci sono gli interessi e le esigenze individuali di milioni di persone.
Ecco perché non soltanto è più corretta eticamente, ma è anche più fruttuosa scientificamente, una prospettiva che nello studiare l”amministrazione si ponga dalla parte dei cittadini, cioè di coloro che costituiscono la giustificazione dell”esistenza stessa dell”amministrazione, piuttosto che non dalla parte dell”amministrazione; detto in altri termini, che si ponga dalla parte del fine, non del mezzo. Ciò che conta è la prospettiva; una volta che questa sia chiara, non solo si possono, ma si debbono utilizzare tutti gli strumenti di analisi e di intervento possibili per cercare di migliorare il funzionamento delle amministrazioni, dalle scienze aziendali a quelle storiche, dalla sociologia all”informatica, dall”economia al diritto, fino appunto alla comunicazione, senza precludersi nessuno strumento se questo possa contribuire a migliorare il servizio che le amministrazioni devono rendere ai cittadini.
L”importante è avere sempre presente la ragione profonda per cui esistono gli apparati pubblici e non cadere nella trappola dell”autoreferenzialità, quella che fa sì che politici e funzionari siano ossessionati dal perseguimento dell”efficienza, dell”efficacia e dell”economicità come se questi fossero gli obiettivi della loro azione, anziché, più semplicemente, modalità operative che, se ed in quanto realizzate, consentono di rendere un miglior servizio ai cittadini.
Potrà sembrare strano, in questa epoca ossessionata dall”efficienza, eppure va detto che l”efficienza amministrativa, in sè, non è un valore: il valore è la persona umana e la sua dignità. Se l”amministrazione è efficiente nel creare le condizioni per il pieno sviluppo delle capacità di ciascun essere umano, allora quell”efficienza ha un senso, altrimenti è inutile o addirittura dannosa: la storia del secolo appena terminato ci insegna che l”efficienza burocratica può anche essere messa al servizio dello sterminio, anziché della promozione, dell”uomo.
3. L”art. 98, 1° c. della Costituzione ed il “servizio” ai cittadini
Quanto appena detto è confermato da un lato dalla Costituzione, dall”altro da una legge ordinaria, ma così importante da poter essere definita di rango costituzionale, la legge n.241/1990.
Per quanto riguarda la Costituzione prendiamo in esame in questo momento soltanto la disposizione di cui all”art.98, 1°c.; ci saranno altre occasioni per tornare più ampiamente sui rapporti fra amministrazione e Costituzione. L”art.98, 1°c. Cost. ha ricevuto minor attenzione delle altre (peraltro poche) disposizioni costituzionali sull”amministrazione, forse anche perché non è facile individuarne le concrete modalità di attuazione. Esso, nell”affermare che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” conferma quanto s”è appena detto: la ragione dell”esistenza delle pubbliche amministrazioni sta nel soddisfacimento delle esigenze dei cittadini. Se infatti i dipendenti, che sono l”elemento più importante delle amministrazioni, sono al servizio della Nazione, come potrebbero non esserlo le amministrazioni per quanto riguarda le funzioni, le organizzazioni, le procedure ed i mezzi, cioè per quanto riguarda gli altri loro elementi costitutivi?
E” poi significativo l”uso del termine “Nazione”, in quanto questa è una delle pochissime disposizioni in cui la Costituzione utilizza tale termine; molto più frequente è infatti il riferimento alla Repubblica, intesa come Stato-apparato. Nazione invece si riferisce alla comunità: dire che i dipendenti pubblici sono al servizio della Nazione è allora come dire che essi sono al servizio della comunità, intesa sia come comunità nazionale, sia come comunità locali.
L”art.98, 1°c. dunque mette in evidenza un rapporto diretto fra i dipendenti ed i cittadini di cui essi sono al servizio esclusivo; le conseguenze, alla luce della distinzione fra sfera della politica e sfera dell”amministrazione di cui al D.Lgs. n.29/1993, possono essere notevoli, sia sul modo di operare dell”amministrazione, sia sui suoi rapporti con la politica. E” un punto essenziale, che non si può qui sviluppare a fondo; ma basta accennare al fatto che tutto ciò rende ancora più evidente la diretta e non più mediata (dalla politica) responsabilità dell”amministrazione per il risultato, cioè per la qualità dei servizi che essa fornisce ai cittadini di cui, come dice la Costituzione, essa è al servizio esclusivo.
Infine, una notazione riguardante appunto questo “servizio” dei dipendenti pubblici nei confronti dei cittadini. Forse uno dei motivi per cui l”art.98, 1°c. Cost. è stato poco valorizzato sta anche in questa espressione, difficile da accettare da parte di larghi settori di una burocrazia che spesso ha ancora una concezione autoritaria ed altezzosa del proprio ruolo e dei propri rapporti con i cittadini. Sotto questo profilo può essere opportuno allora mettere in luce la doppia valenza dell”espressione “essere al servizio di”: la prima, più evidente, rinvia al concetto di “servire” inteso come “esser servo di”, una concezione evidentemente inaccettabile ed in contrasto con la dignità stessa dei dipendenti pubblici, oltre che evidentemente con la realtà; l”altra, più vicina allo spirito della Costituzione, rinvia al concetto di “servire” inteso come “essere utile a”, nel senso in cui si dice per es. “questo computer mi serve per scrivere”. Secondo questa ultima accezione, pertanto, l”art.98, 1°c. Cost. afferma
che i dipendenti pubblici debbono soprattutto essere utili ai propri concittadini, intesi sia come singoli sia come comunità: un obiettivo nobilissimo, che può dare senso e valore anche ad attività burocratiche minute, ripetitive e di cui spesso è difficile cogliere il significato ultimo.
Come si diceva, oltre all”art.98,1°c. Cost. anche la legge sul procedimento, nella sua impostazione generale e nei suoi contenuti, conferma la prospettiva esposta sopra. La legge n.241/1990 è molte cose, tutte importanti, ma sicuramente è in primo luogo una legge dalla parte del cittadino, tanto da potersi considerare come una sorta di statuto dei cittadini nei confronti dell”amministrazione.
Essa, riconoscendo ai cittadini nuovi diritti nei confronti dell”amministrazione, ha riempito un vuoto, da un lato integrando le disposizioni costituzionali in materia di amministrazione, dall”altro aprendo prospettive inedite per lo sviluppo di forme nuove di esercizio di una sovranità popolare non più confinata nell”ambito del sistema politico ma estesa anche al rapporto cittadini-amministrazioni pubbliche.
A distanza di dieci anni dalla sua entrata in vigore e sia pure tenendo conto dei limiti nella sua applicazione, degli istituti previsti e non realizzati, delle resistenze nei suoi confronti, tuttavia si può dire oggi che essa ha segnato una frattura nella storia amministrativa del nostro Paese, così come trent”anni fa la segnò la regionalizzazione. Sotto un certo profilo si può dire anzi che la legge sul procedimento ha completato il processo di dislocazione dei poteri avviato nel 1970; mentre allora però il trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni comportò il passaggio di poteri dal centro agli enti locali, nel 1990 la legge n.241/1990 modificò invece l”assetto dei rapporti fra amministrazioni e cittadini, a vantaggio di questi ultimi.
Certo, come tutti i processi che comportano uno spostamento di poteri anche quello avviato dalla legge sul procedimento è ancora ben lungi dall”essere completato; del resto, anche la regionalizzazione è ancora un processo in corso, nonostante siano trascorsi ormai trent”anni dal suo avvio. Ma l”importanza della legge sul procedimento non sta solo negli istituti giuridici da essa introdotti nel nostro ordinamento, quanto anche nell”aver indicato la direzione in cui poi si sono mosse tutte le riforme successive.
Se non ci fosse stata la legge n.241/1990 non ci sarebbero stati, nel decennio appena trascorso, le grandi leggi che hanno radicalmente cambiato l”assetto del nostro sistema amministrativo, dal D.Lgs. n.29/1993 alle leggi “Bassanini”. E oggi non ci sarebbero gli Uffici per le relazioni con il pubblico e di conseguenza nemmeno questo web magazine.