«Biotestamento vincolante Decide sempre il paziente»

«Biotestamento vincolante Decide sempre il paziente»

D’Ippolito, magistrato e consigliere del ministero della Salute spiega la legge I medici devono rispettare le volontà del malato, costituzionalmente garantite

di Sabrina Tomè

VENEZIA. Dopo il caso di Lodino Marton, il padovano malato di Sla che ha scelto la sedazione profonda, il tema del fine vita è tornato al centro del dibattito in Veneto, dove oltre un migliaio di persone ha scelto le disposizioni anticipate di trattamento. Dallo scorso dicembre la materia è disciplinata dalla legge 219 sul biotestamento che ha fissato il diritto per il paziente di decidere sulle cure. Ma molti restano gli interrogativi aperti: dai diritti del paziente, ai doveri dei medici, ai poteri degli inquirenti. Il magistrato della Procura di Venezia Adelchi d’Ippolito è stato consigliere giuridico del ministero della Salute e spiega le prescrizioni della legge. A cominciare dal principio fondamentale che essa introduce: è il paziente che decide.

Regolamentare la responsabilità professionale del medico è uno dei compiti più delicati e allo stesso tempo più complessi che si trova a d affrontare il legislatore. 

«Nella mia lunga attività di magistrato e nel periodo in cui ho svolto le funzioni di Consigliere giuridico del ministro della salute, ho maturato la convinzione che ogni legge che intervenga sulla responsabilità professionale medica debba tendere a realizzare un perfetto punto di equilibrio tra la tutela piena e completa del malato e la serenità operativa del medico. Vi è, cioè, un reale interesse pubblico a che il medico entri in sala operatoria, in corsia, o in ambulatorio tranquillo senza il timore di sentire svolazzare dietro di sé la toga del pubblico ministero perché tale preoccupazione porterebbe a fare ricorso alla medicina difensiva, a fare cioè troppo o troppo poco e in entrambi i casi ciò non giova alla salute del malato e all’economia del Sistema Sanitario Nazionale».

La legge 22 dicembre 2017, n. 219, entrata in vigore lo scorso 31 gennaio, la cosiddetta legge sul “testamento biologico”, ha introdotto molte novità a cominciare dal ruolo del paziente nella decisione sulle cure. 

«Le novità sono davvero significative, ma più che sul piano tecnico ci leggo una profonda innovazione sul piano culturale. Il legislatore cioè ha profondamente modificato il rapporto medico-paziente esaltando l’assoluta centralità della volontà del malato. È, quello tra medico e paziente un rapporto divenuto sbilanciato nel senso che il medico deve limitarsi a prendere atto di quelle che sono le disposizioni del paziente e ad esse attenersi. La legge prevede che un soggetto maggiorenne capace di intendere e di volere possa dare disposizioni in previsione di una sua futura incapacità di autodeterminarsi. Può, cioè, in parole molto semplici decidere a quali trattamenti medici vorrà essere sottoposto e a quali invece intenderà assolutamente sottrarsi nel caso in cui dovesse venire a trovarsi in una situazione che non gli consenta più di esprimere la propria volontà».

Un rapporto fra medico e paziente profondamente cambiato? 

«Dilatato, direi. Il legislatore chiarisce che anche il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. Il rapporto tra medico – paziente è fondamentale. Non va vissuto con fretta. Non deve essere considerato marginale. La cura comincia da lì, dal primo sguardo che si scambia con il paziente: è con la prima stretta di mano ed il primo ascolto che prende vita quell’alleanza terapeutica che dovrà accompagnare il futuro del loro rapporto. Sono questi i momenti in cui non ci si prepara alle cure future ma sono essi stessi già momenti di reale cura. E in questa fase d’esordio è necessario che il medico si preoccupi di fornire una completa e comprensibile informazione al paziente: la legge ribadisce con chiarezza l’obbligo del consenso informato per ogni atto medico, ivi compresi la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale che, per la prima volta, sono espressamente considerati a tutti gli effetti trattamenti sanitari. Quindi, come ho detto prima, la vera rivoluzione culturale risiede nel fatto che titolare esclusivo del potere di scelta in ordine alla strategia terapeutica da seguire è sempre e in ogni caso il paziente, la cui volontà diventa l’elemento centrale di ogni decisione».

Quindi adesso si può staccare il paziente dalla “macchina”? Staccare i tubicini che tengono in vita nutrendo e idratando artificialmente il malato oppure rifiutare di sottoporsi ad una cura, come è accaduto ai genitori di Eleonora Bottaro? 

«Proprio così, il medico deve rispettare la volontà del paziente e prendere atto che libertà di cura significa anche rifiuto della cura. La legge sul testamento biologico poi prevede la possibilità che il consenso, nei casi previsti, possa essere esteso anche ai familiari introducendo così un altro significativo profilo di grande attenzione per la concreta vicenda umana del paziente: cioè che la malattia è certamente del malato ma non solo del malato e che un pezzo di essa è anche di ognuno dei componenti della famiglia. E questo il medico deve tenerlo presente. La famiglia non è un ingombro, è coinvolta nella malattia e va coinvolta nella cura».

La legge ha introdotto un divieto di ostinazione nelle cure. 

«Nei casi di pazienti con prognosi a breve termine o imminenza di morte il medico deve astenersi da ogni ostinazione, seppur in ipotesi astrattamente ragionevole, nella somministrazione delle cure e se il paziente lo richiede, il medico deve ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua. Attenzione: la sedazione profonda non è eutanasia (che è reato nel nostro ordinamento) poiché non provoca la morte, ma ha il solo obbiettivo di lenire il dolore quando si è giunti naturalmente alla fine della vita e i farmaci non sono più efficaci contro la sofferenza».

Le disposizioni anticipate di trattamento sono per il medico vincolanti? 

«Ripeto: la legge attribuisce alla volontà del disponente una centralità assoluta e sono previste poche e tassative ipotesi in cui le disposizioni contenute nel testamento biologico non sono vincolanti per il medico: nei casi cioè di palese incongruità delle disposizioni o di incertezza o genericità delle stesse o dell’esistenza di nuove terapie non prevedibili al momento in cui le disposizioni furono depositate. In tal caso, il medico non può semplicemente disattendere le disposizioni ma deve far ricorso al giudice tutelare il quale dovrà decidere cercando di risalire a quella che poteva essere la volontà del paziente».

Ma così facendo non si introduce una sorta di eutanasia passiva contraria al nostro sistema costituzionale? 

«Tra i diritti di rango costituzionale la nostra Costituzione delinea un nostro diritto alla vita e non un diritto sulla vita. Infatti la vita è qualificata come bene indisponibile. La conferma di ciò la si ricava anche da alcune fattispecie penali come, ad esempio, l’omicidio del consenziente o l’istigazione al suicidio. Il nostro sistema, fondato sulla indisponibilità del bene giuridico della vita, comporta conseguentemente il dover ritenere l’eutanasia come un reato contro la vita. Questa legge però fonda la propria compatibilità costituzionale sul fatto che la centralità riconosciuta al consenso del paziente, quale presupposto di ogni legittima scelta terapeutica compreso il rifiuto delle terapie è espressione del diritto alla libertà, alla dignità personale e alla salute affermati e garantiti dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione».

A suo giudizio in Veneto gli ospedali sono allineati su queste linee di condotta? 

«A quanto ho potuto constatare nei numerosi convegni ai quali ho partecipato, c’è grande attenzione e sensibilità nella sanità veneziana e veneta nel recepire tutti i punti qualificanti della normativa in tema di disposizioni anticipate di trattamento».

La Cassazione: “violazione” del dovere di corretto consenso informato. Condannati un medico e una casa di cura

La Cassazione: “violazione” del dovere di corretto consenso informato. Condannati un medico e una casa di cura

La Cassazione ha  precisato che il consenso informato “deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative”, mentre non è possibile acquisire il consenso attraverso la sottoscrizione di un modulo del tutto generico. LA SENTENZA.

04 APR – La Cassazione torna sul consenso informato e dopo aver stabilito di recente che le informazioni al paziente devono essere chiare e comprensibili, con la sentenza 7248/2018 ribadisce che il paziente ha il diritto di conoscere le conseguenze di un intervento medico con necessaria e ragionevole precisione per poterle affrontare con la maggiore e migliore consapevolezza.

Il caso specifico è quello di due genitori che hanno chiesto al ginecologo e alla casa di cura danni patrimoniali e non patrimoniali per la nascita di un figlio venuto alla luce con grave sofferenza fetale e conseguente anossia da parto che ha prodotto una invalidità del 100 per cento.

La Cassazione per la sua sentenza si è basata sull’orientamento ormai  consolidato che ha riconosciuto l’autonoma rilevanza, “ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente, e che ha espressamente ritenuto, così come del resto già argomentato dal Tribunale, che ‘la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relative onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informative, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute’.

La Cassazione ha inoltre precisato che il consenso informato “deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative”, mentre non è possibile acquisire il consenso attraverso la sottoscrizione di un modulo del tutto generico. E ha stabilito che l’obbligo di fornire un’idonea informazione al paziente non è realizzato dal medico quando il consenso sia acquisito con modalità improprie, “sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente”.

Secondo la Cassazione quindi, che nella sentenza argomenta per punti diritti e conseguenze di una mancato corretto consenso informato, a una corretta e compiuta informazione consegue:

a. il diritto,  per  il paziente, di  scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico;

b. la facoltà di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari;

c. la facoltà di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie;

d. il diritto di rifiutare l’intervento o la terapia – e/o di decidere consapevolmente di interromperla;

e. la facoltà di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano post­ operatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze prevedibili (per il medico) quanta inaspettate (per il paziente) a causa dell’omessa informazione”.

E la sentenza illustra le varie situazioni che si possono creare nei diversi casi in assenza di un corretto consenso informato:

1. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni, hic et nunc: in tal caso, il risarcimento sarà limitato  al  solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale (sul punto, Cass. 901/2018);

2. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;

3. omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute -da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito andrà valutata in relazione alla situazione differenziale tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso;

4. omessa informazione in relazione ad un intervento che non ha cagionato danno alla salute del paziente (e che sia stato correttamente eseguito):  in tal caso, la lesione del diritto all’autodeterminazione costituirà oggetto di danno risarcibile tutte le volte che, e solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse”.

“Ne consegue in definitiva – si legge nella sentenza –  che il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito secundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli  e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, potrà conseguire alla allegazione del pregiudizio, la cui prova potrà essere fornita anche mediante presunzioni, fondate, in un rapporto di proporzionalità inversa,  sulla gravità  delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione”.

Ne consegue ancora secondo la Corte “che l’indagine potrà estendersi ad accertare se il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento ove  fosse  stato adeguatamente informato; ovvero se, tra il permanere della situazione patologica in atti e le conseguenze dell’intervento medico, avrebbe scelto la prima situazione; o ancora, se , debitamente informato, avrebbe vissuto il periodo successive all’intervento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali quanto inaspettate conseguenze e sofferenze”.

In conclusione, secondo la cassazione la sentenza che non aveva dato ragione ai genitori deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello “che dovrà riesaminare la controversia alla luce dei seguenti principi di diritto:

1. In materia  di responsabilità per attività  medico-chirurgica, l’acquisizione  di un completo ed esauriente consenso informato del paziente, da parte  del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad  oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento  può derivare  …  un danno costituito dalle sofferenze  conseguenti  alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo in ragione della sottoposizione … a  terapie  farmacologiche  ed  interventi medico – chirurgici collegati a rischi dei quali non sia stata data completa informazione. Tale danno, che può  formare  oggetto,  come  nella  specie,  di prova offerta dal paziente anche attraverso presunzioni e massime di comune esperienza, lascia impregiudicata tanto la possibilità di contestazione della controparte quanto quella del paziente di allegare e provare fatti a se ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori.

2. L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del Dl 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, tale che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale vizio presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno o più specifici fatti storici, oppure che  si sia tradotto  nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, priva di un riscontro complete con le emergenze istruttorie sottoposte al riesame del giudice d’appello.”

04 aprile 2018

Il deficit di infermieri può far aumentare la mortalità

Il deficit di infermieri può far aumentare la mortalità

Crisi di risorse pubbliche. Il deficit di infermieri può far aumentare la mortalità


Paolo Viana mercoledì 28 marzo 2018
In 5 anni mancheranno 70mila infermieri. Non sono le risorse umane a mancare: 42 atenei formano ogni anno 12.000 professionisti. Il problema sono i conti pubblici e le politiche di risparmio
Il deficit di infermieri può far aumentare la mortalità

Papa Francesco non si è limitato a definirli «esperti di umanità» e a parlare di quel «contatto con i pazienti che porta un riverbero della vicinanza di Dio Padre». Ai 6.500 operatori sanitari della Fnopi che ha incontrato in udienza privata il 10 gennaio, il Pontefice ha parlato anche della «carenza di personale, che non può giovare a migliorare i servizi offerti e che un’amministrazione saggia non può intendere in alcun modo come una fonte di risparmio». Un discorso tutt’altro che formale, insomma. Lo ha riconosciuto la presidente dell’Ipasvi, Barbara Mangiacavalli, tenendo a battesimo, qualche settimana dopo, la Federazione nazionale delle professioni infermieristiche, nata dalle ceneri dell’Ipasvi in applicazione della legge Lorenzin (3/2018): dopo anni di tagli, ha sottolineato, la sanità italiana deve ripensare il ruolo e le risorse del personale infermieristico che è ormai «il ‘cuscinetto’ tra i bisogni dei pazienti e le esigenze di un’economia che, non per colpa nostra, spesso non li vede e non li affronta per quel che sono». O ggi, la Fnopi rappresenta più di 440mila infermieri. Sono i ‘superstiti’ di una stagione che ha ridotto questa categoria del Servizio sanitario nazionale pubblico del 4,3%; come nessun altro, nel servizio pubblico. Dal 2009, anno dell’ultimo contratto e dell’inizio dei piani di rientro, sono state perse infatti 12.031 unità di personale contro 7.731 medici. Si è aperto un buco di oltre 20mila infermieri nelle strutture del Servizio sanitario nazionale – senza i quali è impossibile coprire i turni secondo le regole sull’orario di lavoro dettate dall’Ue – e di 30mila sul territorio, dove questi operatori dovrebbero rispondere ai bisogni di oltre 16 milioni di italiani con patologie croniche o non autosufficienza. Un deficit che, in base al turn over, arriverà in cinque anni a quota 70mila. Con pesantissimi riflessi sulla qualità del servizio: il ‘British Medical Journal’ avverte che il tasso di mortalità è inferiore del 20% se ogni infermiere ha in carico un numero di pazienti pari a 6 o meno e in Italia si superano i 12. In Campania sono 18.

Il servizio territoriale costituisce un buco nel buco: secondo la Fnopi, per applicare realmente i nuovi Lea servirebbe un infermiere ogni 500 assistiti, in termini di assistenza continua. Non manca la risorsa umana: 42 atenei formano ogni anno 12.000 professionisti. Il problema sono i conti pubblici e le politiche di risparmio, mai terminate. La legge Lorenzin ha avviato il riordino della professione (appesantendo le sanzioni per gli abusivi) ma non ha fermato l’emorragia: secondo la Ragioneria dello Stato, nel 2016 si sono persi altri 1.723 infermieri rispetto al 2015, quando se ne erano persi 2.788: cioè 4.500 professionisti in meno in due anni, particolarmente nelle Regioni in cui ci sono i piani rientro. Sono aumentati i precari, +1.951 a tempo determinato e +513 con lavoro interinale (pur sempre meno di altre professioni, il 6,1 per cento contro il 15,9 per cento), ed è salita l’età media, da 47,47 anni del 2015 ai 48,02 del 2016. Numeri che hanno convinto la Fnopi e i sindacati a insistere, durante le trattative per il rinnovo contrattuale, più che sugli aumenti salariali sulla parte normativa, con l’obiettivo di premiare la meritocrazia e incentivare le nuove professionalità. Si punta cioè a garantire agli infermieri italiani una progressione di carriera non solo organizzativa, ma anche professionale – oggi un infermiere viene assunto come tale e come tale finisce la carriera… – e a mettere un freno all’uso degli straordinari, finora utilizzati ampiamente per coprire le falle degli organici.

Mettere la professione al passo dei tempi – è stato ripetuto durante le trattative con le Regioni significa anche non disperdere un patrimonio di esperienza, come è avvenuto invece negli ultimi anni, quando i tagli hanno indotto migliaia di infermieri ad emigrare: la méta preferita, almeno fino alla Brexit, è stato il Regno Unito, perché là un infermiere guadagna il triplo rispetto all’Italia. Naturalmente, vale anche il contrario: gli stranieri che lavorano da noi oggi sono 30 mila e sono attratti da un differenziale retributivo ancora ampio rispetto ai Paesi in via di sviluppo, anche se la busta paga italiana continua ad assottigliarsi. Tra il 2015 e il 2016 essa ha perso altri 50 euro nonostante il calo di personale e l’aumento di lavoro per chi resta in servizio. Nel 2015 un infermiere italiano guadagnava in media 37.632 euro e gli aumenti di cui si parla nell’ipotesi contrattuale siglata da una parte del sindacato ma contestata dagli autonomi sarebbero «un aumento non aumento» a fronte dei quasi 700 euro persi negli anni con la svalutazione e la perdita di potere di acquisto.

Questo, ovviamente, è un aspetto che il cittadino avverte marginalmente. Lui, diciamolo chiaramente, vorrebbe avere la possibilità di poter scegliere un infermiere di famiglia o di comunità come si fa col medico, magari trovare un infermiere in farmacia, o avere la possibilità di consultarne uno per il trattamento di una ferita, piuttosto che averlo disponibile nella scuola del figlio… Vorrebbe ma non può, perché non c’è. Il Piano nazionale della cronicità ha riconosciuto questa figura professionale, ricorda una di loro, Paola Obbia, «verificando il fabbisogno territoriale di infermieri di famiglia e di comunità ma si registrano ancora fortissime differenze di offerta assistenziale da regione a regione e se la tua Asl non prevede questo servizio non si può certo ovviare con la mobilità sanitaria». Vero. Il paziente non può spostarsi nelle poche Regioni che si sono già attrezzate con infermieri di prossimità, ma può mettere mano al portafoglio, ed è esattamente ciò che fa: si spendono di tasca propria oltre sei miliardi all’anno per avere un’assistenza professionale, una spesa concentrata in alcune regioni – in media, 744 euro in Lombardia e 316 in Campania – che riflette il differente reddito pro capite ma che, complessivamente, inchioda il Sistema sanitario a una prospettiva di inefficacia ed iniquità.

Ciò malgrado, certifica un sondaggio Cittadinanzattiva, la popolazione continua a considerare gli infermieri dei lavoratori disponibili ed empatici. L’84,7% dichiara di fidarsi di loro. Dice lo stesso – nell’81% dei casi – chi ha fatto ricorso ad infermieri privati. Insomma, siamo dinanzi a un capitale reputazionale enorme, che viene speso all’estero dove la professionalità dei nostri infermieri è apprezzata, e che si traduce in Pil: esiste infatti un enorme mercato privato delle prestazioni infermieristiche. Sono 12,6 milioni gli italiani che si rivolgono a un infermiere pagando di tasca propria: 7,8 milioni per una prestazione una tantum, 2,3 milioni per avere assistenza prolungata nel tempo, 2,5 milioni per avere sia assistenza prolungata nel tempo sia prestazioni una tantum. Un mercato destinato a crescere; sia lo Stato che la Fnopi scommettono sull’assistenza domiciliare, che tuttavia non copre tutto. Come spiega Francesco Scerbo, infermiere che ha scelto la libera professione «accreditare prestazioni Infermieristiche che sono le più richieste a domicilio (medicazioni chirurgiche, prelievi ematici, lesioni da pressione, terapia endovenosa ecc.) per pazienti che sono esenti dal pagare ticket per reddito o patologia credo sia atto di giustizia sociale. La gente deve curarsi, tanti sono indigenti e non hanno i denari per poterlo fare, soprattutto a domicilio». Il valore complessivo delle prestazioni infermieristiche erogate in un anno da infermieri privati professionali è pari a 6,2 miliardi e il mercato infermieristico è uno degli ambiti in cui si registra un sommerso rilevante: 6,3 milioni di italiani acquistano prestazioni infermieristiche senza fattura. Si inabissano così 1,4 miliardi di euro.

Diabete. Primo Rapporto civico di Cittadinanzattiva

Diabete. Primo Rapporto civico di Cittadinanzattiva

Diabete. Primo Rapporto civico di Cittadinanzattiva: “Le Regioni procedono in ordine sparso, mentre i pazienti sono schiacciati dalla troppa burocrazia”

Ci sono differenze regionali anche in presenza di un Piano nazionale diabete, con disuguaglianze nella organizzazione dei servizi, messa a punto ed erogazione dei Pdta, imposizione del ticket e  controllo dei tempi di attesa. Anche l’innovazione è a macchia di leopardo. È quanto emerso dal Rapporto “Diabete: tra la buona presa in carico e la crisi dei territori” presentato oggi a Roma LA SINTESI DEL RAPPORTO

28 MAR – Usurati dalla burocrazia, sottoposti a lunghe attese e a contrastare continue difficoltà nella vita quotidiana, soprattutto a scuola e nel passaggio all’età adulta. Anche un semplice rinnovo della patente o ottenere un permesso lavorativo può complicare la vita.
È un cammino spesso in salita quello dei malati di diabete, persone responsabili, attente ai controlli periodici e pronte ad informarsi sulla propria patologia. Persone per le quali nascere in una Regione piuttosto che in un’altra può fare la differenza: le Regioni procedono infatti in ordine sparso anche in presenza di un Piano nazionale diabete, con differenze rilevanti nella organizzazione dei servizi, nella messa a punto ed erogazione dei percorsi diagnostici, terapeutici ed assistenziali, nella imposizione del ticket e nel controllo dei tempi di attesa con cui sono erogati i controlli.

A scattare la fotografia della gestione della patologia diabetica, l’attuazione del Piano nazionale Diabete e le esperienze dei pazienti, è il primo Rapporto civico “Diabete: tra la buona presa in carico e la crisi dei territori”, presentato oggi da Cittadinanzattiva, con il contributo non condizionato di Abbott.

L’indagine, messa a punto da un tavolo di esperti ha coinvolto, tramite questionari online, 4.927 pazienti e 245 professionisti sanitari di tutta Italia, 15 le Regioni che hanno collaborato compilando il questionario messo a punto da Cittadinanzattiva e dal tavolo di lavoro multistakeholder: Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, Trentino Alto Adige (Provincia autonoma di Bolzano, Provincia Autonoma di Trento), Valle d’Aosta, Veneto. Il progetto ha visto il coinvolgimento di 10 organizzazioni professionali, sindacali e società scientifiche e 5 associazioni di persone con diabete*.

“A distanza di sei anni dall’approvazione del Piano nazionale sulla Malattia diabetica c’è ancora molto da fare per la piena e concreta attuazione dei diritti delle persone con diabete – ha dichiarato Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato e responsabile nazionale CnAMC di Cittadinanzattiva – sono troppe e insopportabili le disuguaglianze regionali nell’accesso ai servizi e alle vere innovazioni tecnologiche. Approvare Piani nazionali, recepirli formalmente con Delibere regionali e varare Pdta non è sufficiente, serve maggiore e costante attività di verifica sostanziale da parte del Ministero della Salute e delle Regioni sulla loro concreta attuazione, per assicurare cambiamenti nella vita quotidiana delle persone su tutto il territorio nazionale. Su questo punto bisogna davvero cambiare passo perché quando dalle parole si è passati davvero alle azioni, i cittadini ne hanno visto i risultati”.

È inaccettabile, ha poi aggiunto Aceti “che ancora quasi la metà dei pazienti sia obbligato a prenotarsi autonomamente visite ed esami di controllo. I centri di diabetologia, oggi in forte affanno, vanno rafforzati e integrati con i servizi territoriali. Per aumentare la capacità di risposta del Ssn bisogna valorizzare di più la figura del Medico di Famiglia anche rispetto alla possibilità di prescrivere terapie innovative, come pure le importanti competenze maturate dalla professione infermieristica. Ridurre il peso sui pazienti della burocrazia inutile è una necessità ineludibile, come pure affrontare e risolvere definitivamente il problema della somministrazione dei farmaci a scuola che ancora oggi obbliga intere famiglie a farsi carico in prima persona e tutti i giorni di quest’attività”.

Cosa dicono le persone con diabete. Le persone che hanno partecipato alla indagine sono affette in grande maggioranza (72,8%) da diabete di tipo 1, prevalentemente in età lavorativa attiva (40-64 anni) o genitori di bambini o ragazzi (17,5%).Sono persone responsabili ed esperte nella gestione della malattia, che effettuano le necessarie visite di controllo (il 65% ha consultato almeno una volta nell’ultimo anno un oculista ed il 40% un cardiologo) e tutti gli esami diagnostici necessari, e che svolgono regolarmente attività fisica (56,6%). Infatti, solo il 6% è dovuto ricorrere ad un ricovero ospedaliero ed oltre la metà non ha avuto complicanze nell’ultimo anno. Solo al 20,3% sono stati garantiti corsi sulla gestione della patologia e il 62% fa da tramite tra il medico di medicina generale e lo specialista per garantire l’integrazione.

Si attende anche un anno per la prima visita diabetologica e un anno e mezzo per quella endocrinologica. E accade anche che i pazienti siano costretti a fare centinaia di chilometri per la visita di controllo al centro diabetologico e per un colloquio che in molti casi dura solo pochi minuti e non sempre con lo stesso specialista. La maggior parte (più del 47%) deve prenotare autonomamente le visite o gli esami di controllo; in egual percentuale deve ricordare tutte le visite da solo non essendoci un sistema di calendarizzazione degli appuntamenti.
Chi fa uso di dispositivi innovativi per la gestione del diabete (40%) lo fa per lo più a proprie spese, ad esempio il 49,6% acquista i sensori per la glicemia privatamente, con lo smacco per di più che lo stesso dispositivo risulta essere gratuito in altre Regioni italiane.

Le differenze regionali non finiscono qui: il 21,8% paga un ticket sui farmaci; il 76,6% non ha accesso al numero necessario di strisce o sensori per limitazioni nella prescrizione.
Solo il 12% afferma di essere inserito in un Percorso diagnostico, terapeutico ed assistenziale (Pdta): laddove questo avviene ha degli effetti estremamente positivi sulla qualità di cura e di vita della persona, che riscontra un maggiore controllo della patologia, più informazione ed ascolto e un accompagnamento reale nella cura.

Se la persona con diabete è un bambino, oltre ai disservizi già citati, incontra difficoltà nei servizi sanitari ma anche nella vita scolastica. Il 15% dei piccoli è curato in un centro per adulti. Per il 62% dei genitori il servizio nella mensa scolastica non è adeguato, il 78% dichiara che il proprio figlio non ha partecipato, nell’ultimo anno, a corsi per la promozione dell’attività fisica, il 64% non ha ricevuto sostegno psicologico. Spesso si sconta, in ambito scolastico e in altri aspetti della vita del bambino come lo sport, una vera e propria forma di discriminazione.

Rispetto alla vita quotidiana, al di fuori dei servizi sanitari, molte solo le difficoltà e gli ostacoli evitabili. C’è chi rinuncia a rinnovare la patente di guida, specie se costretto a rinnovi frequenti, a causa della lunghezza e complessità delle procedure, oltre che per i costi privati da sostenere. C’è chi rinuncia a chiedere il riconoscimento della legge 104, necessario per avere i permessi lavorativi e curarsi; c’è chi si confronta con distanze, procedure ed orari poco compatibili per ritirare farmaci e dispositivi dalle farmacie. Inoltre, c’è chi deve mettere mano al portafoglio, spendendo in media 867 euro l’anno e fino ad oltre tremila euro l’anno per presidi non riconosciuti, visite ed esami, spostamenti per la cura, ecc..

Il quadro delle Regioni. Nonostante il Piano nazionale Diabete del 2012 sia stato formalmente adottato da tutte le Regioni, il quadro su modalità e strumenti di gestione della patologia diabetica risulta estremamente variegato. Fra le 15 Regioni che hanno partecipato alla indagine, ci sono alcune, come la Lombardia, che conoscono esattamente quanti pazienti diabetici, di tipo 1 e di tipo 2, sono presenti, suddividendoli per complessità e per voci di spesa, ed altre Regioni, come l’Abruzzo, che non hanno cognizione né di quanto spendono, né a quanto ammontano i fondi stanziati per la cura del diabete.

In 12 regioni/provincie autonome su 15 esiste un Pdta regionale sul diabete in Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Molise, Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto, ma a fornire un dato sulla percentuale di pazienti inseriti nel percorso sono sei: Friuli Venezia Giulia, Lazio, Piemonte, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto. Piemonte e Marche hanno organizzato i servizi diabetologici secondo il modello Hub e Spoke, la Lombardia adotta un suo particolare modello. Solo Toscana, Piemonte, Marche e, in parte Basilicata, conoscono la distribuzione dei pazienti nelle diverse strutture.

Ancora, in nove su 15, tra provincie autonome e regioni, esiste un Piano attuativo del Piano Nazionale Diabete in Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Piemonte, Sardegna, Toscana, Provincia Autonoma di Trento e Veneto; più basso il numero di quello che ne monitorano l’attuazione (rispondono negativamente o non rispondono Marche, Sardegna, Provincia autonoma di Trento).
Solamente nel Lazio, in Piemonte e Veneto sono presenti centri di primo livello che vedono la presenza del Medico di Medicina Generale.

Esistono centri prescrittori specifici per tecnologie o farmaci innovativi in Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Molise, Sardegna, Toscana, Trentino Alto Adige, Veneto.
Conoscono i tempi di attesa per la prima visita diabetologica solamente Friuli Venezia Giulia, Toscana, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.

Sul lato informatizzazione, le Regioni che hanno un registro dei pazienti sono: Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Provincia Autonoma di Trento, Valle d’Aosta ed Veneto. Non sono state attivate esperienze di telemedicina in Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte, nella Provincia Autonoma di Bolzano e in Valle d’Aosta.

Anche la prescrizione di farmaci e dispositivi varia da Regione a Regione e non tutte, ad esempio, hanno deliberato circa l’accesso a dispositivi come i sensori come nel caso di Abruzzo, Molise, Puglia, Provincia Autonoma di Bolzano. È presente il ticket sui farmaci in Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Puglia e Veneto.

Anche per la gestione del bambino con diabete le differenze sono evidenti. In Basilicata, ad esempio, non esiste una presa in carico del paziente in età evolutiva in strutture di secondo/terzo livello specialistiche pediatriche, nel Lazio si sta sviluppando un PDTA per il diabete in età pediatrica, in Toscana esistono 9 centri dedicati ai piccoli pazienti. Ancora, esistono dei protocolli di transizione strutturata dalla gestione del centro pediatrico a quello dell’adulto e dal pediatra al medico di medicina generale in Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige e Veneto.

Linee di indirizzo per le mense scolastiche sono state elaborate in Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Piemonte, e Veneto. Non esistono protocolli di coinvolgimento per il trattamento della ipoglicemia e per la somministrazione di farmaci a scuola in Basilicata, Liguria, Lombardia, Molise e Provincia Autonoma di Bolzano. Non sono stati realizzati nell’ultimo anno a livello regionale e/o aziendale eventi dedicati all’educazione strutturata dei bambini/ragazzi e famiglie (per esempio campi educativi, ecc.), in Basilicata, Liguria, Lombardia, Molise, Puglia, Sardegna.

28 marzo 2018

Infermieri, i cittadini valutano positivamente il loro lavoro. I risultati dell’Osservatorio di Cittadinanzattiva e Fnopi

Infermieri, i cittadini valutano positivamente il loro lavoro. I risultati dell’Osservatorio di Cittadinanzattiva e Fnopi

Gli infermieri forniscono ai cittadini informazioni chiare e comprensibili e li supportano nella gestione della patologia. Ma, agli occhi del paziente, appaiono spesso impegnati anche in eccessive attività burocratiche e di conseguenza molti vorrebbero più infermieri a disposizione per l’assistenza. La gran parte dei cittadini inoltre accoglierebbe con favore l’istituzione degli infermieri di famiglia ed […]

Gli infermieri forniscono ai cittadini informazioni chiare e comprensibili e li supportano nella gestione della patologia. Ma, agli occhi del paziente, appaiono spesso impegnati anche in eccessive attività burocratiche e di conseguenza molti vorrebbero più infermieri a disposizione per l’assistenza. La gran parte dei cittadini inoltre accoglierebbe con favore l’istituzione degli infermieri di famiglia ed anche la presenza degli stessi all’interno delle scuole. I cittadini sanno che sono professionisti laureati, che sono loro a fare il triage al pronto soccorso, ma sono meno informati del ruolo dell’infermiere nell’educazione su stili di vita e gestione delle patologie.

Sono questi alcuni dei risultati dell’Osservatorio civico sulla professione infermieristica, promosso da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato insieme alla FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), e presentati in occasione del Congresso nazionale FNOPI. L’indagine, con l’obiettivo di raccogliere l’esperienza dei cittadini nel loro rapporto con la figura professionale dell’infermiere, è stata condotta attraverso 34 sedi territoriali del Tribunale per i diritti del malato dislocate in 15 Regioni, e attraverso la collaborazione di: AISLEC, ALICE ITALIA, AMRI, ANIMO, ASBI, ASSOCIAZIONE PAZIENTI BPCO, FNOPI Roma, GFT (Gruppo Formazione Triage) e UILDM. La rilevazione conta su 1895 cittadini intervistati.

«Per i cittadini il lavoro svolto dagli infermieri è decisamente positivo e anche per questo li considerano una risorsa sulla quale il Servizio Sanitario Nazionale può e deve investire di più al fine di garantire maggiore accesso, qualità e sicurezza delle cure. Servono più infermieri, in particolare nei servizi sanitari territoriali, più tempo dedicato all’assistenza e meno alla burocrazia. Ma soprattutto serve che anche le Istituzioni riconoscano sempre di più le competenze e il contributo che la professione infermieristica può garantire all’innovazione organizzativa e quindi alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale». Queste le dichiarazioni di Tonino Aceti, Coordinatore Nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva, che continua: «Blocco del turn over, blocco dei contratti, tempari e minutaggi sono state le principali leve del governo del personale sanitario del SSN messe in atto in questi anni, ma che ora bisogna superare se si vuole dare risposte ai bisogni e alle criticità segnalate dai cittadini. È necessario che nel disegno dell’organizzazione dei servizi sanitari e nella progettazione e implementazione delle tecnologie sia garantito il coinvolgimento dei professionisti sanitari e dei cittadini, al fine di ridurre il rischio di inefficienze e aumentare le capacità di risposta del sistema. Anche se i risultati di questo Osservatorio Civico ci restituiscono una bella fotografia del lavoro svolto dagli infermieri, l’obiettivo è mettere a punto ed attuare le azioni di miglioramento necessarie. Proprio su questo si concentrerà l’impegno e la collaborazione, già nelle prossime settimane, tra il Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva e la FNOPI».

I RISULTATI DELL’OSSERVATORIO

In 4 casi su 5 i cittadini riconoscono facilmente gli infermieri tramite elementi identificativi e vedono tutelata la propria privacy nel 70% delle situazioni. Gentilezza e cortesia durante l’assistenza viene riferita nell’88% dei casi, mentre valori più bassi si riscontrano su “empatia” e disponibilità all’ascolto che comunque si riscontrano nel 72%  dei casi. Solo 1 infermiere su 5 non ha dedicato il tempo necessario per informare e rispondere ad eventuali domande del cittadino/paziente contro l’80% degli infermieri che ha fornito informazioni chiare e comprensibili. Prima di esami, terapie e trattamenti, il professionista ha spiegato cosa stava per fare nel 72% dei casi e, di fronte a ritardi o problemi organizzativi, nella metà delle situazioni ha informato per tempo e aggiornato il cittadino.

Fuori dall’ospedale, circa 3 cittadini su 5 affermano di essere stati supportati dall’infermiere a gestire la patologia ed i trattamenti, riferendo inoltre, in almeno 1 caso su 2, come il professionista abbia organizzato il calendario delle visite e dei successivi esami (55%). C’è ancora da lavorare sulla formulazione del piano di assistenza mirato alla persona e ai suoi bisogni che, in quasi 2 casi su 5 (39%), non vede protagonista attivo l’infermiere.

Poco meno della metà dei cittadini conferma che l’infermiere di riferimento si è attivato per fornire orientamento nell’accesso ad eventuali altri servizi, garantendo continuità di assistenza tra ospedale e territorio. Più in generale 1 infermiere su 2 (54%) risponde ai bisogni assistenziali della persona, compresi quelli psicologici e sociali.

Il 65% circa dei cittadini constata come l’infermiere abbia lavorato in modo coordinato ed integrato con medici ed altri professionisti sanitari, tuttavia viene segnalato che quasi 1 infermiere su 4, indagata la presenza di dolore, non si è coordinato con altri professionisti, per gestirlo in modo tempestivo.

Durante l’assistenza infermieristica, quattro su cinque si sentono molto o abbastanza sicuri; mentre resta un 17% circa che non ha avuto questa stessa sensazione.

Il 52% circa dei cittadini, inoltre, reputa insufficiente il numero degli infermieri e ne chiede un potenziamento per evitare che i carichi burocratici, che quasi un paziente su due vede pesare eccessivamente sugli infermieri, incidano negativamente su qualità e sicurezza dell’assistenza.

Non solo in ospedale. Più infermieri sul territorio: 3 cittadini su 5, ovvero il 78% riterrebbe utile poter scegliere e disporre di un infermiere di famiglia come si fa con il medico, in particolar modo (80%) per poterlo consultare in caso di lesioni da decubito. Infine, l’84% accoglierebbe volentieri un infermiere nei plessi scolastici.

Cosa sanno i cittadini degli infermieri. Gli intervistati sono consapevoli (79% circa) che per diventare infermiere occorre la laurea; circa uno su due (53%) sa che si tratta di una professione sanitaria che opera in autonomia e non più ausiliaria di quella medica. Buona la conoscenza dell’infermiere che opera in ambito palliativo, preventivo, curativo e riabilitativo (71%) così come l’83% sa che tra le competenze infermieristiche c’è anche quella di valutare la gravità del caso e assegnare il codice di priorità al Pronto Soccorso. Tra le competenze dell’infermiere che si conoscono meno ci sono: educazione sanitaria (44%); supporto all’autogestione delle persone con malattie croniche/rare (37%); supporto per l’aderenza alle terapie (32%); orientamento ai servizi (44%).

Consenso informato. Cittadinanzattiva presenta le “raccomandazioni civiche”

Consenso informato. Cittadinanzattiva presenta le “raccomandazioni civiche”

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di rendere effettivo il Diritto al Consenso previsto dalla Carta Europea dei diritti del malato di Cittadinanzattiva, anche alla luce delle recenti leggi sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, nonché sulla sicurezza delle cure e sulla responsabilità professionale del personale sanitario.

16 FEB – Stando ai dati dell’ultimo rapporto Pit Salute, una persona su cinque fra quelle che hanno segnalato “difficoltà di accesso alla informazione ed alla documentazione sanitaria”, ha riscontrato difficoltà o problemi con il consenso informato. I cittadini raccontano di sentirsi disorientati o di nutrire dubbi rispetto all’intervento a cui dovranno sottoporsie, perché viene loro lasciato troppo poco tempo tra la consegna del modulo e l’esecuzione della prestazione; i Moduli di Consenso Informato risultano difficili da comprendere, ostici, troppo lunghi e tecnici. Vorrebbero ricevere più informazioni per poter scegliere e capire cosa accadrà.

La carenza di informazione, la mancata cura del percorso di consenso informato possono generare nei cittadini il dubbio di essere stati vittime di errore sanitario. Questo emerge dalla consulenza medico legale per casi di sospetta malpractice giunti nel 2016 alle sezioni del Tribunale per i diritti del malato. In un caso su tre, l’analisi della documentazione mostra un nesso di causalità, confermando quanto segnalato dal cittadino; nel 65% questo non è rilevabile, anche per carenze nella documentazione sanitaria. Ciò che può spingere erroneamente il cittadino a ritenere di essere vittima di malpractice è in un caso su tre la carenza di informazione, oppure incomprensione (35%), o scarsa umanizzazione (33%)

Il Rapporto sulla Cartella clinica di Cittadinanzattiva, inoltre, mostra che nell’80% delle cartelle cliniche il consenso è presente; che nella maggior parte dei casi risulta leggibile in ogni sua parte (77,5%); non contiene dettagli tecnici sul tipo di intervento (68,3%), sui rischi e sulle complicanze (56,1%), sulla prognosi post trattamento (85,4%) e sulle alternative terapeutiche (87,8%).

“Con questa iniziativa – spiega Tonino Aceti,Coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva – vogliamo rilanciare l’impegno del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva su un tema, quello del diritto al consenso, che qualifica la relazione ed il rapporto di fiducia tra cittadini, professionisti sanitari e Servizio Sanitario Nazionale. Esprimere un consenso davvero informato dovrebbe rappresentare un momento specifico di un più ampio processo di comunicazione e ascolto tra professionisti e cittadini. Un processo che dovrebbe essere dinamico e continuativo, e non al contrario esaurirsi con la sola firma di un modulo come purtroppo in alcuni casi accade oggi”.

“Comunicazione, cura della relazione e consenso davvero informato rappresentano strumenti per garantire un ruolo attivo della persona nel percorso di cura – prosegue Aceti -, per prevenire e gestire il rischio clinico, per ridurre il contenzioso e quindi contribuire alla sostenibilità del Ssn, oltre che per ridurre le asimmetrie informative. Nonostante per legge il tempo della comunicazione sia considerato vero e proprio tempo di cura, esistono decisioni assunte da alcune Regioni e Aziende sanitarie che vanno esattamente nel senso opposto come i cosiddetti tempari e il minutaggio del personale. La sfida è dare all’interno delle organizzazioni sanitarie sostanziale dignità ed effettività al tempo della comunicazione e dell’ascolto. Per questo chiediamo al Ministero della Salute di realizzare una Raccomandazione Ministeriale sui requisiti di qualità del percorso di acquisizione del consenso informato e la relativa attivazione di un gruppo di lavoro che coinvolga anche organizzazioni di cittadini e pazienti, Società Scientifiche, Ordini Professionali, esperti sul tema”.

“Il consenso informato è un diritto/dovere del malato, una norma di buon senso e un principio giuridico che trova fondamento nella Costituzione e in numerose Convenzioni e Carte internazionali”. È quanto dichiara Andrea Urbani, Direttore Generale della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute, che aggiunge: “Al di là delle varie norme che ne disciplinano il rispetto, questo principio cardine della cura della salute va onorato nella quotidianità, in quel complesso e dinamico rapporto tra medico e paziente che inevitabilmente riflette il confronto tra decisori politici, comunità scientifica e opinione pubblica”.

“A Cittadinanzattiva – continua Urbani – va il merito di aver promosso un approfondimento di alto livello, un utile contributo alla definizione della corretta attuazione di questo diritto/dovere, con particolare interesse al punto di vista del cittadino-paziente che inevitabilmente interpreta il ruolo più ‘difficile’ della partita. Per questo, il Ministero della Salute garantisce la massima attenzione ai risultati di questo seminario, con l’obiettivo finale – condiviso da tutti – di migliorare le modalità di acquisizione del consenso informato”.

Ecco alcuni degli elementi essenziali per un effettivo percorso di acquisizione di un consenso davvero informato. E’ necessario garantire: spazi dedicati, accoglienti e rispettosi della privacy; tempi adeguati da dedicare alla comunicazione con l’interessato, cui riconoscere anche valore economico nel processo di formazione delle tariffe e della prestazione di percorsi; un dialogo che consenta di esprimere bisogni/aspettative o eventuali incomprensioni oltre che verificare quanto la persona abbia compreso; informazioni complete sull’intero percorso di cura e sulle eventuali implicazioni/limitazioni che l’intervento potrà avere nei vari aspetti della vita quotidiana ecc.; formazione dei professionisti sanitari su relazione, comunicazione e percorso di acquisizione del consenso, sia nel percorso universitario, sia nell’Ecm; organicità ed uniformità nei documenti che raccolgono il Consenso Informato e livelli essenziali di informazione.

Essi dovrebbero contenere: linguaggio semplice, fruibile e comprensibile; alternative possibili rispetto al trattamento consigliato, anche laddove non eseguibile nella struttura, comprese le percentuali di successo e di rischio;tipologia dei dispositivi proposti e quelli disponibili, comprese caratteristiche tecniche, durata/usura e necessità/possibilità di re-interventi; dati statistici sulle performance della struttura; l’indicazione che firmare il modulo non costituisce esenzione di responsabilità nell’esecuzione della prestazione.

Hanno contribuito al lavoro: Acoi, Aisc; Apdic, Azienda Usl di Modena, Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente della Regione Toscana, Fand,Federazione delle Società di Psicologia, Federsanita Anci, Fism, Parkinson Italia. Boston scientific ha offerto il proprio sostegno non condizionato all’iniziativa.

16 febbraio 2018

Col paziente il medico deve spiegarsi per bene

Col paziente il medico deve spiegarsi per bene

Col paziente il medico deve spiegarsi per bene

La Corte di Cassazione richiama un elemento fondamentale: la corretta comunicazione nei confronti del paziente. «Il referto scritto non esaurisce il dovere del medico, in quanto rientra negli obblighi di ciascun medico il fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute»

di Francesco Barresi

 

Col paziente il medico deve spiegarsi per bene

Il medico non può spiegarsi in medichese con il paziente. Lo spiega la Corte di cassazione, nella sentenza 6688/2018. Tutto nasce da una situazione delicatissima divenuta poi tragedia: una donna, che presentava dei noduli al seno sinistro, fu consigliata da un medico di effettuare un «completamento diagnostico con mammografia e successiva consulenza senologica», poi in una seconda visita di una «valutazione chirurgica ed eventuale prosecuzione diagnostica». Quindi la paziente si recò da un radiologo che però «non ha dato il giusto valore al riscontro di adenopatie ascellari che rappresentano un elemento fortemente suggestivo di neoplasia maligna nella mammella omolaterale», spiegano i giudici, «e che quindi imponeva la prescrizione di un immediato proponimento diagnostico». Il radiologo inoltre «aveva tranquillizzato» la paziente consigliandole un controllo dopo sei mesi, per di più non potendosi qualificare il caso come «un caso clinico di particolare difficoltà». Invero, la donna morì di cancro al seno nel giro di quei sei mesi. Da qui il ricorso dei famigliari. E in sede di giudizio le Ctu disposte evidenziarono la superficialità del medico e «l’erroneità del suo “suggerimento attendista” di un controllo ecografico e mammografico a sei mesi di distanza». Questo perché «una mammografia effettuata quando la malattia mammaria era verosimilmente in una fase iniziale, avrebbe con elevata probabilità logica e scientifica permesso una diagnosi precoce e avrebbe offerto reali possibilità di guarigione o di lungo-sopravvivenza». Ma i porporati del Palazzaccio aggiungono e richiamano un elemento fondamentale: la corretta comunicazione nei confronti del paziente. «Il referto scritto non esaurisce il dovere del medico, in quanto rientra negli obblighi di ciascun medico, come statuito nel codice deontologico, il fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute», chiosano i porporati, «tenendo peraltro conto anche delle capacità di comprensione dell’interlocutore», per cui sia per il radiologo che per qualsiasi medico, «il suo lavoro di comunicazione non può e non deve esaurirsi solo tramite quel referto, strumento comunicativo in linguaggio tecnico».

Violenza sulle donne, sospeso lo psicoterapeuta di Mestre scoperto dalle «Iene»

Violenza sulle donne, sospeso lo psicoterapeuta di Mestre scoperto dalle «Iene»

 

Violenza sulle donne, sospeso lo psicoterapeuta scoperto dalle «Iene»

Il dottor Abdulstar Muhammad nel suo ambulatorio a Mestre aveva abusato di una donna che si era rivolta a lui dopo aver subito violenza sessuale

Abdulstar Muhammad (web)
Abdulstar Muhammad (web)

VENEZIA Si intitola «Violenza sulle donne, lo psicoterapeuta abusatore». È un servizio trasmesso dal programma «Le Iene» mercoledì 28 marzo su Italia Uno. Mostra la storia di una donna che, dopo aver subito violenza sessuale del suo patrigno quando aveva sette anni, si rivolge da uno psicoterapeuta, che però abusa di lei. Dell’uomo la trasmissione fornisce le generalità: si tratta di Abdulstar Muhammad, che, sul sito www.medicitalia.it viene qualificato come «medico generico, psicologo, psicoterapeuta». Il suo ufficio si trova a Mestre, in via Milano. Nella scheda che appare quando si digita il nome e il cognome del professionista su Google, alcuni utenti, citando il servizio delle «Iene», lo offendono pesantemente; «Mi fa davvero schifo , lo sa?», scrive una. «Schifoso stupratore! Invece di aiutare approfitti per stuprare le donne!»; «Meriti di essere cancellato dall’albo, non sei degno di indossare il camice».

L’Ulss 3 Serenissima

L’Azienda sanitaria Ulss 3 Serenissima ha inviato per la valutazione del caso e l’eventuale seguito di competenza una nota alla procura della Repubblica e all’Ordine dei medici della provincia di Venezia. Il dottor Abdulstar Muhammad, si legge in una nota dell’Ulss, «non è un medico dipendente della Azienda sanitaria veneziana ma un medico convenzionato per l’attività di medicina generale. L’Azienda ha di conseguenza disposto, immediatamente e cautelativamente, la sospensione della convenzione con il medico stesso. Contemporaneamente, l’Azienda sanitaria ha affidato gli assistiti del dottor Abdulstar Muhammad al locale Distretto sanitario e alla Medicina di gruppo integrata che opera in esso. Quanto all’attività di psicoterapeuta che risulterebbe svolta dal medico in questione, questa esula da qualsiasi incarico affidato dall’Azienda sanitaria, e anche in proposito l’Ulss 3 ha avviato ogni necessaria verifica. L’Azienda sanitaria si riserva, assieme ai propri legali, ogni ulteriore azione che potrà derivare dalle verifiche in corso».

L’Ordine degli psicologi: noi parte lesa

«Il professionista in questione non è iscritto all’Ordine degli psicologi ma all’Ordine dei medici di Treviso con una specializzazione dichiarata in psicoterapia conseguita all’Università Pontificia»: lo precisa l’Ordine degli psicologi del Veneto prendendo posizione «sulla squallida vicenda di abusi sessuali». Se le accuse saranno provate, l’Ordine degli psicologi si considera «parte lesa assieme all’intera categoria degli psicologi. È già in contatto con l’Ordine dei medici e sta valutando qualunque azione legale possa essere intrapresa a tutela di tutti i propri iscritti».

Biosimilari. Il nuovo position paper Aifa: porte aperte all’intercambiabilità con originator, ma ultima decisione spetta comunque al medico

Biosimilari. Il nuovo position paper Aifa: porte aperte all’intercambiabilità con originator, ma ultima decisione spetta comunque al medico

Aceti (Cittadinanzattiva): “Bene centralità decisione clinica del medico”

27 MAR – Il fenomeno del sottotrattamento merita la massima attenzione di tutti e va affrontato con decisione. Tra le azioni da mettere in campo vi è il miglioramento dell’organizzazione dei servizi per le cronicità, l’implementazione di PDTA, ma anche la capacità di cogliere tutte le opportunità che offrono i biosimilari. Sui biosimilari però c’e’ bisogno di un Patto tra tutti gli attori, affinché i risparmi che derivano dall’utilizzo dei biosimilari rimangano realmente nelle disponibilità del SSN e siano finalizzati a garantire maggior accesso ai trattamenti, anche quelli innovativi.

Approfondiremo attentamente nei prossimi giorni il Position Paper dell’AIFA sui farmaci biosimilari, ma ad una prima lettura apprezziamo la centralità che ha voluto riservare alla decisione clinica del medico nella scelta del trattamento, oltre che alla comunicazione e informazione al paziente che è l’ingrediente imprescindibile per un’adesione consapevole alle terapie. Ora la partita è verificare che questi principi diventino effettivi nei territori delle Regioni, permettendo concretamente ai medici di poter esercitare la professione in scienza e coscienza, guardando alla specificità dell’individuo che ha davanti a se, all’interno di una cornice di appropriatezza clinica sostenuta da evidenze e di utilizzo ottimale delle risorse a disposizione.

Tonino Aceti
Coordinatore Nazionale Tribunale per i diritti de malato-Cittadinanzattiva

27 marzo 2018